Di seguito l’intervista di Martina Di Pirro a Tiziana Ferrario contenuta nel graphic novel “Rwanda, i giorni dell’oblio”
Poche donne possono raccontare la guerra come Tiziana Ferrario. Giornalista, inviata, conduttrice Rai, appassionata sostenitrice dei diritti delle donne ha documentato per anni guerre e crisi umanitarie dagli angoli più remoti del pianeta. Per il suo lavoro dal fronte della guerra afgana e irachena ha ricevuto numerosi premi ed è stata insignita del riconoscimento di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana per l’impegno civile come giornalista inviata in aree di guerra.
Insomma, Tiziana Ferrario conosce, approfonditamente, il ruolo dei media nello scenario politico.
Un ruolo che, durante il genocidio avvenuto in Rwanda nel 1994, è stato di importanza capitale. Da una parte le armi, dall’altra le radio, i giornali e le emittenti straniere.
«Senza armi da fuoco, machete o altri oggetti, voi avete provocato la morte di migliaia di civili innocenti», ha tuonato la giudice Navanathem Pilay introducendo la sentenza del cosiddetto “Media Trial”, il processo che, per la prima volta nella storia, riconosce in sede giuridica le responsabilità dei media nel veicolare le idee estremiste.
Le responsabilità dei giornalisti imputati sono state equiparate a quelle degli organizzatori materiali del genocidio.
Nel 1997, il Tribunale penale internazionale delle Nazioni Unite per il Rwanda (Ictr) ha incriminato tre persone per «incitamento al genocidio». Il primo a finire sul banco degli accusati è stato Hassan Ngeze, fondatore e curatore di Kangura, il giornale di proprietà degli estremisti hutu che, nei mesi prima del genocidio, pubblicò articoli che disumanizzavano i tutsi e incitavano all’odio. Insieme a Ngeze, sono finiti sul banco degli imputati Ferdinand Nahimana e Jean-Bosco Barayagwiza, fondatori di Radio Télévision Libre des Milles Collines (Rtlm), una stazione radiofonica che diffondeva notizie sul genocidio, a volte arrivando al punto di fornire nomi e luoghi di coloro che dovevano essere uccisi. Nel dicembre 2003 l’Ictr ha condannato Ngeze e Nahimana per istigazione diretta e pubblica al genocidio, e Barayagwiza per «istigazione alla perpetrazione di atti di genocidio e crimini contro l’umanità».
Di fatto, sia Kangura, sia la Radio Télévision Libre des Milles Collines ebbero il potere di influenzare gli avvenimenti, soprattutto a partire dal 6 aprile 1994, il giorno in cui è stato abbattuto l’aereo del Presidente hutu Juvénal Habyarimana. Proprio quel giorno, alla radio venne emesso un messaggio molto chiaro: «uccidete gli scarafaggi, tagliate gli alberi alti!». Ben presto, Rtlm abbandonò la propaganda all’odio etnico e si concentrò sulla vera e propria gestione dell’olocausto.
Le milizie genocidarie e i soldati incaricati del genocidio avevano il compito di rimanere sempre sintonizzati su Rtlm per seguirne le istruzioni. La radio funzionava come un centralino che trasmetteva gli ordini da eseguire, che faceva la conta dei tutsi e degli hutu moderati uccisi. Chi riforniva le milizie genocidarie dell’attrezzatura per la radiodiffusione, dalle radioline portatili – a marca cinese – e come mai i giornalisti di Rtlm avessero disponibilità di kit per la trasmissione di mobili e furgoni sono ancora domande aperte. Secondo alcune inchieste, la responsabilità era di militari francesi esperti, con il coinvolgimento della Cina. Fatto sta che Rtlm trasmetteva senza problemi anche nella cosiddetta “safe zone umanitaria”, creata dall’esercito francese ai confini con lo Zaire (ora Repubblica Democratica del Congo) con il nome di Operazione Turquoise.
D’altro canto, i media internazionali non hanno fatto di meglio. A parte qualche trafiletto nei quotidiani, il massacro è stato derubricato a guerra tra etnie, a scontro non rilevante. Pochi, o nessuno, l’hanno definito per quello che era: un genocidio.
Tutto questo ha dato vita al primo processo ai media della storia, con le accuse di incitamento all’odio e al genocidio.
Viviamo in un’epoca in cui la potenza virale dei social media ha sostituito, in parte, il giornalismo tradizionale. Siamo inondati di fake news e semplificazioni. Qual è oggi il ruolo del giornalista?
«Io credo che il mestiere del giornalista sia diventato più complicato. Oggi vediamo che la presenza del giornalista, il suo valore di mediatore delle notizie, sono stati soppiantati dai social media. Questo aumenta la possibilità di ricevere fake news, perché il dovere di verificare i fatti è stravolto dall’immediatezza del mezzo social. L’imparzialità assoluta è un dogma quasi impossibile, però il lavoro di un giornalista è quello di confrontare le fonti, di approfondire. Ce ne sarebbe ancor più bisogno, ora. Il giornalista, in quanto mediatore tra i fatti del mondo e il lettore, deve fare quel lavoro di inchiesta che spesso chi sta sui social media non è interessato a fare. Certo, è un lavoro faticoso. Ancora più di prima. La velocità dei social media è enorme, in rete passa di tutto: quando escono notizie false bisogna rincorrerle, per smentirle. E servono giornalisti preparati per controbattere a certi tipi di fake news, che sembrano tanto veritieri. Bisognerebbe investire di più sui giornali. È un insegnamento che viene dai grandi giornali americani, dal New York Times al Washington Post: per alzare l’asticella della qualità dello scritto, hanno creato redazioni di fact-checking. Un lavoro che occupa tempo e risorse ma è essenziale per un buon giornale e un giornalismo di approfondimento.
Certo, bisogna volerlo. Bisogna volere un giornalismo di qualità, bisogna voler investire sulla verità, e purtroppo sono pochi gli editori che scelgono questa strada. Per questo la credibilità dei giornalisti vacilla: hanno poco tempo e poche risorse per approfondire. Non bisognerebbe fermarsi all’emozione della notizia, ma riuscire ad analizzarla, verificarla e arrivare il più vicino possibile alla verità. Ecco il punto: giornali, editori e giornalisti dovrebbero voler investire sulla verità».
Quale importanza ha l’utilizzo del linguaggio? Nel processo ai media avvenuto in seguito al genocidio del Rwanda, una delle accuse rivolte ai giornalisti incriminati fu quella di aver utilizzato un linguaggio d’odio. Un utilizzo di cui si sente parlare molto anche ai giorni nostri, rivolto alla pancia delle persone piuttosto che alla testa.
«Credo sia alla luce del sole il fatto che oggi alcuni media parlino alla pancia delle persone. È diventato un modus operandi: attaccare gli avversari politici con un linguaggio di odio, che poco ha a vedere con i contenuti discussi. In Italia lo scontro politico si è radicalizzato anche per colpa di un linguaggio molto violento. Lo stesso avviene sui social: pochi caratteri e necessità di eliminare l’analisi esasperano il linguaggio. Quanto avvenuto in Rwanda nel 1994 è stato, in tutto e per tutto, un fallimento del giornalismo e dei media internazionali. La radio “des Milles Collines” ha fatto un lavoro sporco per mesi e mesi, fomentando la diffusione dell’odio, contribuendo attivamente allo scontro sociale interno. Però è chiaro come la Comunità Internazionale fosse disattenta, e guardasse da un’altra parte, per via di altre situazioni. La comunità dei media non ha capito cosa stesse succedendo. Certo, c’erano anche altre situazioni da coprire: la guerra in Bosnia, le prime elezioni democratiche in Sudafrica dopo l’apartheid. Conoscendo molto bene il funzionamento delle testate, sicuramente avevano risorse molto prosciugate, all’epoca.
Non era nemmeno facile entrare in Rwanda, pochi giornalisti – si contano sulle dita di una mano – sono riusciti ad attraversare i confini del paese. Coprire una guerra costa.
In più, esiste questo vizio di considerare l’Africa un insieme, un continente unico. Non lo è. L’Africa è piena di continenti a sé stanti che vivono situazioni totalmente diverse. Il Rwanda, nel 1994, era percepito come un piccolo paese, rispetto ai grandi sconvolgimenti che stavano avvenendo. Attenzione, questa non è una giustificazione. Ma è intrinseco al funzionamento dei giornali dare o non dare priorità a seconda della percezione di cosa si racconta. Erroneamente, il caso Rwanda è stato derubricato a scontro etnico. Un interessante reportage estero racconta come fosse difficile, una volta entrati nel paese, comunicare e raccontare: bisognava uscire e rientrare, per mandare i pezzi, con tutti i rischi che comportavano quegli spostamenti. Il primo a utilizzare la parola genocidio riferendosi al Rwanda fu Papa Wojtila, non i giornali, non le istituzioni governative, o la comunità internazionale. La utilizzò in maggio, quando già avevano perso la vita migliaia di vittime. Insomma, era una situazione molto difficile da capire e da coprire. Anche per colpa del linguaggio d’odio dei giornali locali».
La comunità dei media si è girata dall’altra parte, dunque. Per un motivo o per un altro, ha scelto di non coprire, di non parlare. Il genocidio dimenticato, lo hanno definito. Secondo lei esistono altri Rwanda nel mondo di oggi? Altre situazioni che la comunità dei media non comprende, in termini di gravità?
«Certo. Mi viene in mente lo Yemen, la guerra dimenticata. Sappiamo pochissimo di una guerra per procura fatta dalle grandi potenze che finanziano uno scontro secolare tra sciiti e sunniti. Da oltre cinque anni, in Yemen infuria una guerra civile che vede militarmente coinvolta anche l’Arabia Saudita. Eppure pochi ne parlano, proprio per la difficoltà di coprire certi conflitti.
Penso anche alla Libia, un conflitto iniziato nel 2011 e che dura da nove lunghi anni, a fasi alterne, che non accetta di diminuire di intensità.
Insomma, alcuni conflitti sono estremamente complicati da seguire. Il mestiere di giornalista è un lavoro di artigianato, non si può fare a qualunque costo, soprattutto se il costo è la vita. Non siamo e non dobbiamo essere votati alla morte. È un mestiere a cui bisogna garantire sicurezza, investimenti, attenzione. Alcuni conflitti non vengono coperti perché non ci sono le condizioni per farlo. In più, ragionando come un editore, se le tematiche escono dai radar, quindi dall’interesse quotidiano, non vale la pena nemmeno seguirle dal punto di vista economico. Non è bello, ma è così. A volte non coprire i conflitti è una scelta di marketing, si sceglie cosa coprire e cosa no in base agli interessi economici in ballo. Abbiamo un’alternativa, oggi. Con i mezzi che abbiamo a disposizione, internet e le iperconnessioni, esiste la possibilità di trovare in loco gente che può mandare immagini e testimonianze. La verità va cercata, si può sempre trovare. Anche in questo caso, è una questione di scelte».
Sempre meno giornalisti contrattualizzati e sempre più freelance, che, con risorse proprie, decidono di andare a coprire zone del mondo molto pericolose. Eppure, spesso, è proprio dal loro lavoro che arrivano le notizie più interessanti. Cosa ne pensa?
«Non nascondiamoci dietro a un dito: il giornalismo sta vivendo una grave crisi. Siamo in una fase di grande trasformazione, è difficile vivere di questo mestiere. La figura del freelance fa parte di questa trasformazione. Bisogna provare a pensare a forme di collaborazione fra giornalisti, diventare imprenditori di se stessi. Ma bisognerebbe anche fare in modo che i giornali inizino, o continuino con forza ancora maggiore, a tutelare la figura del giornalista, soprattutto freelance. Ricordiamoci: è un mestiere che va fatto, ma non a ogni costo. Coprire i conflitti è una cosa complicata, bisogna armarsi di passione e competenza, ma non solo. Spetta ai giornali, agli editori, investire su questo tipo di lavoro».
Il Graphic novel “Rwanda, i giorni dell’oblio” è stato realizzato con il sostegno del Mibact e di SIAE nell’ambito del programma “Per chi crea”.