“Bergamo anno zero” di Tiziano Rugi è un libro che ripercorre i mesi della pandemia attraverso le voci di chi si è trovato a combattere in prima linea contro un nemico invisibile e sconosciuto. Medici, infermieri, personale socio sanitario, volontari e farmacisti restituiscono un racconto inedito di quello che hanno vissuto migliaia di cittadini nella provincia lombarda.
Un libro a tratti feroce che va in profondità delle ferite lasciate in tutti quelli che sono stati a stretto contatto con il virus, sia dal punto di vista fisico che psicologico. Un documento su quello che è stato veramente il Covid e sugli errori che non andrebbero ripetuti.
Di seguito due estratti del libro:
I medici di famiglia
Sono notti interminabili quelle che Andrea Rossi vive da due mesi. Iniziano alle 20 di sera e finiscono alle 8 di mattina, a volte sono anche le 10 quando stremato torna a casa a Telgate, piccolo comune della Bassa Bergamasca dove vive. Trentuno anni, da tre è guardia medica ad Alzano Lombardo e quando non lavora studia al corso di formazione in medicina generale, ma adesso, con il Covid-19, le lezioni sono sospese.
Non avrebbe mai immaginato di trovarsi un giorno nell’epicentro di un’emergenza mondiale. E non avrebbe mai immaginato che quel lavoro che lo appassiona tanto gli avrebbe lasciato un tale devastante senso di frustrazione. Si sente spiazzato e inerme di fronte a un nemico che conosce poco e non riesce a combattere: «È l’aspetto più difficile, visitare i pazienti con la consapevolezza di fare meno di quanto vorresti perché non hai mezzi» ammette.
A volte può solo tentare di consolare il malato, perché tanto non arriverà mai l’ambulanza del 118 per portarlo in ospedale, non arriverà mai dalla farmacia la bombola di ossigeno che avrebbe potuto salvarlo. Quella notte è a casa di una paziente molto anziana di 92 anni, i figli e i nipoti intorno al capezzale. La situazione è grave, tutti ne sono consapevoli.
«L’auto medica sarebbe stata disponibile solo dopo un’ora, troppo tardi» ricorda. Così l’unica cosa che può fare è attendere e accompagnare il trapasso della signora, un’ora accanto a persone che non conosce a condividere il dolore finché la malata non smette di respirare. Umanità, certo, e rispetto per quel giuramento di Ippocrate che lega il medico al paziente, che rende nobile e fondamentale la professione che ha scelto.
A volte è il senso del dovere a imporgli di non rassegnarsi, di puntare i piedi. Come un’alba in cui è a casa di un quarantenne che vive con la madre. L’uomo ha una dispnea acuta e fatica a respirare, ma non si riesce a trovare una bombola di ossigeno, ed è costretto ad attendere 57 minuti al telefono prima di parlare con l’operatore del 118 per assicurare il trasporto del paziente in ospedale. Quella volta andò bene e lui ricorda ancora la gratitudine negli occhi della madre.
Come se non bastasse, non c’è solo il sentimento di impotenza per essere costretti a lasciare i pazienti a domicilio, ma anche il senso di colpa di non poterli visitare tutti. Nel piccolo ambulatorio della guardia medica ad Alzano Lombardo il telefono fisso e il cellulare squillano in continuazione. Tutti hanno gli stessi sintomi: febbre, tosse, difficoltà a respirare, mal di testa e, in alcuni casi, perdita del gusto e dell’olfatto.
«Riuscivamo a gestire un massimo di cinquanta chiamate a notte e non più di sei visite domiciliari a pazienti che dovevano essere ospedalizzati o per reperire bombole d’ossigeno dalle farmacie. Sapevamo di avere dei pazienti da monitorare ma ogni notte si aggiungevano nuovi casi perché l’evoluzione del virus è molto graduale e i malati, magari dopo dieci giorni di sintomi persistenti, peggioravano improvvisamente nella notte» racconta Arianna Alborghetti, 35 anni, collega di Rossi alla guardia medica di Alzano Lombardo.
Cosa si può fare se telefona una persona in quelle condizioni? «Valutare rapidamente la situazione, chiedere informazioni di base come la temperatura corporea, la pressione e, se il paziente ha sviluppato una polmonite, il livello di saturazione. È utile far camminare il paziente per sei minuti e vedere se la saturazione scende: se i valori sono inferiori a 90 è il caso di intervenire. Naturalmente è necessario che il malato abbia a casa un saturimetro (lo strumento per misurare il valore ndr) e questo con il progredire dell’epidemia era sempre più difficile perché non si trovavano più in farmacia» spiega la dottoressa.
Arianna ricorda il turno della notte di venerdì 21 febbraio, poche ore dopo la scoperta del “paziente uno” di Codogno: «Ero preoccupata e temevo che qualcuno avrebbe telefonato, mi sono fatta lasciare da un collega una mascherina Ffp2 perché non avevo dispositivi di protezione e ho iniziato il turno: da quel momento ogni notte ho visto il fiume ingrossare».
A chiamare, a chiedere aiuto, sono i familiari di pazienti sempre più gravi: «Sono intervenuta in casi disperati. Malati che non erano stati visitati da giorni, magari perché anche il medico di famiglia si era ammalato e non era stato ancora trovato un sostituto e tutto si scaricava sulla guardia medica. Era frequente visitare una persona che una notte saturava a 80 e scoprire due giorni dopo che era morta in ospedale». Fa una pausa e ammette a bassa voce: «È stato terribile».
Arianna finisce il turno alle otto del mattino che è stanchissima. Soprattutto, si sente provata psicologicamente «perché quello che hanno vissuto Nembro e Alzano è indescrivibile, la pressione su Bergamo non è stata così devastante come in Val Seriana». E allora in solitudine scoppia a piangere e si prepara alla battaglia di domani.
Gli alpini e i medici di Emergency
Mola mia, “Non mollare”, è un tipico detto bergamasco, e nei giorni dell’emergenza diventa un motto per la laboriosa provincia lombarda, spesso scherzosamente derisa per il suo “culto” del lavoro: «Tutto il mondo ha visto i cinesi costruire un ospedale in una settimana; bene anche i bergamaschi l’hanno fatto» fa notare compiaciuto il presidente dell’Ordine dei medici di Bergamo Guido Marinoni.
Se non fossimo in mezzo a una tragedia verrebbe da sorridere per la campanilista sfida tra i due popoli lavoratori per eccellenza. Ma è la necessità di salvare vite a spingere i volontari a “non mollare”. In sette giorni e sette notti, 20mila ore di lavoro, fino a 300 artigiani bergamaschi, tra carpentieri, elettricisti, cartongessisti, idraulici e imbianchini, 250 volontari della Sanità alpina, 40 esperti di logistica della Protezione civile e semplici cittadini trasformano i locali della Fiera di Bergamo in un ospedale Covid.
La scintilla è venuta dall’Associazione nazionale alpini che grazie anche a numerose donazioni ha finanziato e organizzato i lavori tramite la Sanità alpina, creata dall’Ana nel 1976 con l’obiettivo di intervenire ovunque ci sia un terremoto o un’alluvione ed esperta nella costruzione di ospedali da campo.
«Quando però ci siamo resi conto delle tenebre in cui era sprofondata la città di Bergamo, dove le persone morivano in casa perché mancavano le bombole d’ossigeno, abbiamo capito che era necessario fare di più» spiega Sergio Rizzini, direttore generale della Sanità alpina e coordinatore del progetto.
Non è stato semplice: il 19 marzo la Regione Lombardia accoglie il primo progetto. Sarà modificato quattro volte, con obiettivi sempre più ambiziosi. Il 6 aprile i primi pazienti saranno assistiti in un vero e proprio ospedale Covid con 142 posti letto di cui 72 di terapia intensiva, 70 di media-bassa intensità e un piccolo pronto soccorso.
«Una struttura di eccellenza, concepita esclusivamente per il Covid» precisa Rizzini: «E questo è stato possibile grazie all’aiuto del team medico e logistico di Emergency, che ha messo a disposizione le conoscenze maturate in Sierra Leone nel 2014 e nel 2015 durante l’epidemia di Ebola» spiega il capo della Sanità alpina.
A coordinare l’équipe, in un modulo da 12 posti letto di terapia intensiva, Gina Portella. Cinquantaquattro anni, fisico magro e due grandi occhiali che sovrastano la mascherina, medico anestesista rianimatore e una vita dedicata a soccorrere persone in scenari di guerra o durante epidemie: in Afghanistan, in Sierra Leone e oggi in Sudan, dove è coordinatrice di un centro di chirurgia. «Ho l’abitudine di trovarmi sempre nel posto sbagliato nel momento sbagliato» scherza il medico di Emergency: «A febbraio ero a Milano, quindi sono stata coinvolta nel progetto».
Gina Portella sa quanto possa essere drammatico affrontare l’Ebola in ospedali da campo, con strumenti, ossigeno e farmaci limitati, in mezzo a persone che muoiono per strada e troppi malati da curare contemporaneamente: «I sistemi sanitari di Sierra Leone e Italia non possono essere paragonati, ma tutte le epidemie hanno punti in comune» afferma.
«A Bergamo le persone non morivano per strada ma sole in casa, quando l’afflusso di pazienti nello stesso momento è troppo elevato i problemi per i medici sono identici e il Covid è sicuramente meno devastante dell’Ebola, ma non meno pericoloso.
«L’Ebola non ha un quoziente di infettività alto come il SARS-CoV-2 e soprattutto è più “semplice” da individuare perché i pazienti contagiosi hanno sintomi precisi e possono essere immediatamente isolati, nel caso del Covid i sintomi non coincidono con il momento in cui diventi infettivo e puoi essere anche portatore asintomatico» spiega la dottoressa.
Identica è anche la soddisfazione per il medico quando salva la vita a una persona. Il ricordo di Gina Portella va immediatamente a un’anziana signora di Bergamo: «È stata la prima a essere ricoverata e l’ultima a essere dimessa e più volte abbiamo pensato di perderla ma alla fine ce l’ha fatta» racconta. «O il ragazzino serbo con sindrome di Down, eravamo molto preoccupati a causa delle numerose comorbilità e invece ha avuto un’ottima risposta. In reparto abbiamo avuto anche donne giovani con gravi problemi psichiatrici e col tempo siamo riusciti ad instaurare un rapporto umano e tutti abbiamo apprezzato la loro gentilezza» conclude.
In un mese l’ospedale della Fiera di Bergamo ha accolto 140 persone, solo una è deceduta: «Mi sarei aspettata di vedere più pazienti» ammette il medico di Emergency: «Purtroppo lo stesso era accaduto con l’Ebola. Queste strutture, nonostante siano costruite in tempi record, data la velocità del decorso delle epidemie, arrivano sempre leggermente dopo la fase di picco, quando ci sarebbe più bisogno» spiega con un po’ di rammarico.
L’importanza dell’ospedale della Fiera non è stata però solo clinica, ma anche psicologica, fa notare Rizzini: «È come se la penna nera degli alpini avesse portato speranza e voglia di reagire in tutti i bergamaschi allo stremo delle forze che stavano per arrendersi». Mola mia.