[di Tiziano Rugi, autore “Bergamo anno zero”] Un anno fa l’immagine dei camion militari carichi di bare divenne simbolo della sofferenza di una città e di un’intera nazione.
In Bergamo anno zero ho raccontato il coraggio dei medici di famiglia mandati allo sbaraglio a combattere il virus a mani nude, dei turni sfiancanti dei colleghi e degli infermieri in ospedale, delle Rsa martoriate dal virus, dei volontari della Croce Rossa sulle ambulanze che non si fermavano mai.
Quasi ogni famiglia bergamasca ha perso almeno un caro, un amico: in percentuale alla popolazione la provincia lombarda è stata una dei territori più colpiti al mondo. Ufficialmente 3395 vittime, quasi sicuramente più del doppio, perché mancavano i tamponi per le diagnosi e le persone morivano sole in casa senza ossigeno. Nel solo mese di marzo i morti aumentarono del 568 per cento rispetto alla media dei cinque anni precedenti.
Pensavamo fosse il culmine di un dramma, era soltanto l’inizio. C’è un senso di impotenza e smarrimento dodici mesi dopo a rivivere quel 18 marzo, la data scelta simbolicamente per ricordare le vittime del Covid. Con l’Italia per metà zona rossa, con le terapie intensive nuovamente in allarme.
All’inizio della seconda ondata, quando tanti errori vennero fatti, Andrea Crisanti, una delle voci più lucide e ascoltate durante questa pandemia, rilasciò un’intervista a Repubblica. Si discuteva di terapie intensive allo stremo, della possibilità di un nuovo lockdown.
Rispose Crisanti: «Dobbiamo discutere di altro: di quanta sofferenza e morti siamo disposti ad accettare. Il sistema può anche reggere e allo stesso tempo avere un numero di decessi maggiore rispetto alla prima ondata. Ma la metrica dovrebbe essere tarata sulla sofferenza umana e sociale, non sulla tenuta del sistema».
Il 18 marzo del 2020 persero la vita 475 persone, ieri 431. Solo che un anno fa per Covid erano morte circa tremila persone: oggi più di centomila. Sono i morti che le istituzioni, i familiari e i cittadini ricorderanno oggi a Bergamo e in tutta Italia.
Sono i morti che siamo disposti ad accettare. Se 400 vittime al giorno erano una cifra insopportabile un anno fa, oggi, da mesi, è la normalità. La scelta dell’Italia a colori, rispetto a misure più d’impatto, è stata questo: individuare un numero di vittime accettabili.
Per andare avanti, per sperare, per non abbandonarsi alla disperazione: nessuno ha l’ardire di sputare sentenze morali. Ma se davvero c’è una similitudine tra una guerra e una pandemia, forse è proprio la consapevolezza che il benessere della maggior parte della popolazione è possibile a prezzo della morte di un’altra più piccola: i soldati, i malati.
Adesso però, rispetto a un anno fa abbiamo i vaccini. Abbiamo la fiducia, come dimostrano l’esempio della Gran Bretagna, di Israele e degli Stati Uniti, che le vittime potranno davvero scendere. E finalmente il 18 marzo 2022 avremo tante persone in meno da piangere e ricordare.
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